Weaving a story.

Jude & Ahmet

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    Le iridi oltremare di Jude Mikkelsen si spalancarono all'improvviso. Ad inondare il suo sguardo sbalordito, una distesa turchina che si estendeva a perdita d'occhio. Quello che a primo acchito appariva come un fondale marino disseminato di piccoli ammassi rocciosi ricoperti di incrostazioni, conchiglie sminuzzate e strane piante fluttuanti che somigliavano ad alghe smeraldine. Sul fondale la sabbia era increspata per via delle correnti fredde che fluivano con forza sotto i sei metri di profondità e pesci multicolori guizzavano da una parte all'altra evitando accuratamente di toccarlo. Lanciò una rapida occhiata al proprio corpo: ad ogni bracciata poteva intravedere i muscoli del torace tendersi, coperti dal tessuto della maglietta che, intriso d'acqua, la fasciava come un secondo strato di pelle. Ad un certo punto una sagoma nera e sinuosa simile ad una murena serpeggiò nella sua direzione ma, quando all'uomo sembrò che stesse per scontrarglisi contro, invertì direzione sparendo dalle sua vista oscurata da una roccia di ampie dimensioni. L'ossigeno iniziava a mancare così Jude si affrettò a nuotare verso la superficie; un gesto in apparenza repentino ma che, più nuotava, più gli dava l'impressione di non riuscire a raggiungere l'obiettivo in tempo. Il chiarore sembrava un miraggio e quando finalmente l'uomo riuscì ad emergere, trangugiò saliva e fiotti d'acqua nel tentativo di inspirare ossigeno in modo ossessivo. Recuperò poco a poco un respiro normale sputando acqua e tossicchiando energicamente, preda da forti convulsioni. Gli occhi gli bruciavano terribilmente ed in principio gli resero difficoltoso riuscire a mettere a fuoco ciò che stava intorno a lui.
    Alle sue spalle, individuò un banco di nebbia e fitte nubi caliginose, somigliante ad un sistema temporalesco perpetuo; curioso visto che sopra la sua testa il cielo si mostrava limpido e solo sulla linea dell'orizzonte il firmamento mutava così drasticamente. Il norvegese sbatté le iridi azzurrine per mettere meglio a fuoco la visuale, assottigliando lo sguardo. Mosse quindi qualche bracciata verso l'orizzonte ma il suo moto fu presto arrestato: senza un'apparente logica, il mare, piatto sino a quel momento, iniziò ad animarsi in ampi cavalloni nivei. Onde che si facevano sempre più alte e potenti portarono presto l'uomo ad abbandonare l'idea iniziale, ruotando su sé stesso ed iniziando a nuotare verso il litorale.
    La distesa di sabbia che in quel modo fu portato a notare, ampia ed irregolare, s'interrompeva ad un certo punto per lasciare posto a quella che sembrava una fitta vegetazione come Jude ne aveva viste solo nelle riviste di viaggi, sino a quel giorno. Si rese conto solo in quel momento di star ancora indossando scarpe e pantaloni, cosa che lo portò inevitabilmente a pensare di aver fatto un errore di rotta. Da molti anni non sfruttava più la sua particolarità che lo portava ad esplorare universi paralleli, versioni differenti del mondo nel quale viveva. La cittadina norvegese nella quale viveva gli aveva offerto quel dono, resosi più una maledizione per altri cittadini, compresa la sua ex moglie. Riusciva ad usarla nei momenti di picchi emotivi, tuttavia Jude non riusciva a ricordare quando l'avesse usata. Anzi, a voler essere precisi, non rammentava né dove fosse prima di ritrovarsi tra quelle acque caraibiche, né buona parte del suo passato. Si disse che doveva essere dovuto allo shock o a qualcosa sempre legato ai suoi viaggi che lo dovevano aver portato lì. Era arduo per lui pensare lucidamente, avvertiva la stanchezza che quella condizione gli aveva procurato inoltre le onde s'infrangevano inghiottendolo e riportandolo nelle profondità marine; ogni volta che riemergeva pregava che la battigia fosse sempre più vicina ma, come prima quando era riemerso, anch'essa gli appariva irraggiungibile.
    Dopo un arco di tempo incalcolabile, le sue mani affondarono nella soffice sabbia bagnata, infondendogli una sorta di stabilità. Stremato vi si accasciò lasciando che il peso deformasse la superficie molliccia. Rimase per diversi minuti con gli occhi serrati, avvertendo la pelle d'oca che gli ricopriva il corpo scuotersi sotto i suoi affanni e l'acqua lambirgli le gambe. Regolarizzato il respiro per la seconda volta da quando aveva ripreso conoscenza, ruotò il busto mettendosi a pancia in su. La parte sinistra del suo volto era cosparsa di granelli di sabbia calda, gli occhi ancora brucianti faticavano a restare aperti a contatto col sole cocente. Quando si sentì sufficientemente pronto si alzò a sedere, puntallandosi sui gomiti che affondarono sotto al suo peso. Si guardò intorno con aria circospetta, le labbra ancora dischiuse alla ricerca di ossigeno. L'aria era calda e se non fosse stato per rare brezze marine, Jude avrebbe trovato difficoltoso respirare come era solito fare, così si limitava a piccole inspirazioni rapide e calcolate. Sia alla propria destra che alla propria sinistra non individuava la fine della spiaggia, votata ad un panorama ripetitivo e scalfito solo da alcuni gruppi di rocce sulle quali le onde s'infrangevano.
    Già, ora che vi prestava attenzione, notò che le onde che avevano reso difficoltosa la sua avanzata verso la riva, stavano morendo sotto il suo sguardo sino a tornare alla tavola piatta che aveva accolto la sua riemersione. Fu mentre era occupato con quelle considerazioni che notò con la coda dell'occhio un movimento alla sua sinistra. Il cranio saettò verso la fonte di quel rumore inaspettato, i sensi da buon poliziotto subito all'erta aspettandosi di veder comparire un animale mentre invece, il suo sguardo riconobbe i lineamenti di un essere umano. Ehi!...Ehiii! incerto su quanta voce avesse in corpo, suo malgrado Jude cercò di urlare per farsi individuare dal nuovo arrivato, scuotendo il braccio in modo da aumentare le possibilità di venir intercettato.
    Fortunatamente non vi era un vento tale da coprire le sue urla che vennero presto intercettate dallo sconosciuto. Con gioi, Jude lo vide raggiungerlo, ma non essendo ancora del tutto sicuro di potersi reggere in piedi, preferì restare semidisteso sulla sabbia rovente. Man mano che la sagoma avanzava, poteva distinguerne i lineamenti. Era un giovane, non avrebbe saputo dargli un'età precisa ma di sicuro doveva aver superato la ventina; i capelli lunghi scompigliati dal vento avevano un che di disordinato, la pelle bronzea doveva esser stata accarezzata a lungo dal sole che gli illuminava lo sguardo ma, a colpire maggiormente il norvegese, furono i suoi abiti.
    D-dove ci troviamo? domandò con un tono di voce che lasciava intendere quanto la nuotata gli fosse costata in termini di indebolimento fisico. Molteplici erano le domande che gli frullavano nella mente, ma non sapeva se poteva fidarsi di quel ragazzo. Il suo impiego come capo della polizia lo aveva portato ad una discreta diffidenza nei confronti degli sconosciuti, specie quando non si trovava nella sua città e, ancor di più in quel momento, dopo esser stato testimone di tutta quella serie di stranezze.
     
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    Amava percorrere i frammenti meno abitati dell'isola: quelli in cui era meno probabile imbattersi in un'altra presenza umana che interrompesse la solitudine di cui si circondava e, allo stesso tempo, gliene gettasse addosso una variante meno gentile. Era un equilibrio fragile, quello sul quale Ahmet muoveva i propri passi, tra contraddizioni tanto sottili quanto difficili da spezzare. Isolamento fisico che significava solitudine dell'anima, ma anche una profonda comunione con ciò che lo circondava – comunione, questa, che sarebbe stata messa a rischio dall'intrusione di un'altra persona. Continuo bisogno di movimento e di azione fisica da un lato e, dall'altro, quei lunghi intervalli dedicati ad una contemplazione del tutto immobile. Questi sono solo pochi esempi di come la sua esistenza ondeggiasse tra poli antagonisti, facendo di lui una figura difficile da incasellare. Generalmente, gli altri abitanti dell'isola concordavano nel definirlo “un po' strambo”, convinti che in quel modo potessero arginare il potenziale disturbo di un individuo che faticava a fare propria una delle forme che gli venivano proposte.
    Nel corso della sua permanenza sull'isola – protrattasi, ormai, per numerosi mesi – si era cimentato in qualsiasi tipo di attività. Era curioso di imparare le basi della sopravvivenza in quel contesto singolare, ed inizialmente questo gli era valso l'approvazione degli altri. Ma era risaputo che ad un certo punto bisognasse fare una scelta tra le diverse strade proposte: nel loro caso più che mai, basandosi la comunità sull'impegno e il contributo di ogni singolo elemento. Pochi erano quelli che vedevano di buon occhio un giovane che rifiutasse di assumere un posto preciso: il suo perpetuo ondeggiare era interpretato come segno di irrequietudine e inaffidabilità.
    Ahmet non si sentiva di condannare gli altri isolani per l'opinione che avevano di lui, dal momento che egli stesso non si riteneva adatto ad un'esistenza di quel tipo, sempre a stretto contatto con persone la cui collaborazione era vitale. Che ciò fosse vero era dimostrato, tra le altre, dall'importante ruolo che il Mercato dei Sospiri giocava per le diverse tribù. Diretto verso quel curioso crocevia, il giovane muoveva un passo davanti all'altro sulla sabbia finissima, così calda da risultare quasi insopportabile alle piante dei piedi nudi. La brezza leggera che a intervalli spirava dal mare faceva ondeggiare la tunica e i pantaloni che indossava: indumenti piuttosto larghi, ruvidi, nella tipica foggia del posto. Colorate trame geometriche erano ricamate sul tessuto nero della tunica, mentre i pantaloni erano privi di decorazioni e gli arrivavano ben sopra le caviglie.
    Rifletteva su come fosse il mercato, a suo parere, il vero cuore della loro piccola realtà. Accogliendo le diverse popolazioni che animavano l'isola, si trattava di un luogo tanto caotico quanto affascinante e, non da ultimo, di grande utilità. Non erano rare le occasioni in cui lui stesso vi si recava, che fosse per necessità o semplice desiderio di curiosare.
    Percepiva - tra le strade animate da persone abbronzate, vestite di pelli o di tessuti colorati, dagli occhi luminosi e le mani guizzanti tra gli oggetti più disparati – una magia totalmente diversa da quella dei boschi ombrosi, ma altrettanto imponente. Gli era difficile afferrarne l'essenza, e soprattutto non gli riusciva di inserirsi nel flusso armonioso che coinvolgeva ogni altra persona. Ne era tanto attratto quanto intimorito, adottando quasi sempre l'atteggiamento goffo che lo caratterizzava nei contesti sociali. Nel tempo la situazione era migliorata, ma non aveva ancora trovato la giusta direzione in cui spingere i propri sforzi, così da annullare la distanza che lo separava da chiunque altro. Per la verità, non avrebbe nemmeno saputo da dove iniziare.
    Non prestava attenzione al paesaggio intorno a sé, che vedeva la chiara banda della spiaggia distendersi fino all'orizzonte, la sua monotonia interrotta solo da occasionali rocce a picco sul mare. Niente di nuovo per gli occhi di chi, come lui, aveva percorso quei litorali innumerevoli volte. Vi era, tuttavia, un particolare che avrebbe potuto attirare la sua attenzione, poiché non costituiva uno spettacolo altrettanto comune; l'improvviso innalzarsi delle onde sfuggì però alla coscienza di Ahmet, che proseguiva il suo cammino con aria pensierosa, lo sguardo abbassato sulla sabbia di fronte a sé. Il suo udito registrò distrattamente un crescendo nel mormorio delle onde, ma il punto dove si era scatenata l'anomalia era ancora lontano.
    A fargli alzare lo sguardo, quando ormai l'oceano tornava alla sua consueta calma, una voce sconosciuta ruppe la monotonia in cui si era cullato fino a quel momento. Alzò di scatto la testa, strizzando gli occhi per individuare l'autore del richiamo. La ricerca fu breve, prima che l'uomo che in quel momento si stava sbracciando attirasse tutta la sua attenzione. Il passo si fece improvvisamente rapido, sollevando dietro di sé piccole quantità di sabbia che si affrettavano a ricadere sulle sue orme. Strappandolo alle proprie elucubrazioni, era come se quel grido gli avesse trasmesso tutta la sua urgenza, facendolo arrivare in prossimità dell'uomo in poco tempo.
    Rallentò il passo, consentendosi di osservare un volto che gli risultava del tutto sconosciuto: i lineamenti duri erano atteggiati in un modo che esprimeva sfiancamento, così come la postura, che lo vedeva semidisteso sulla spiaggia. Dopo essersi rispecchiato negli occhi chiari dell'uomo, lo sguardo di Ahmet indugiò sui suoi abiti inzuppati, e d'un tratto saettò all'orizzonte, dove gli ultimi indizi di alte onde erano ormai stati assorbiti nella consueta monotonia. Non fece in tempo a chiedersi se quello fosse un nuovo arrivato o qualcuno che si fosse avventurato troppo al largo perché la domanda dello sconosciuto dissipò qualsiasi dubbio.
    «Questa è la spiaggia infuocata.» Pronunciò, dopo una breve esitazione. Si sforzò di sorridere, rendendosi conto di aver appena elargito un'informazione perfettamente inutile per qualcuno che non conosceva quella terra. «Benvenuto sull'isola.» Gli tese una mano con cui, se lo avesse accettato, lo avrebbe aiutato a rimettersi in piedi.
    Era stato nei panni di quell'uomo, ed era consapevole delle innumerevoli domande che gli dovevano ronzare in testa. Si sentiva, però, impreparato a gestirle, e i suoi modi avevano un che di impacciato mentre valutava come muoversi. «Le onde… ti hanno cacciato indietro?» Domandò, desideroso di dare spazio al nuovo arrivato, così da capire che tipo fosse prima di trovare il modo migliore per comunicargli che era appena approdato alla sua nuova vita. O alla sua prigione.
     
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    Quando Jude usava la propria particolarità fissava un puntino luminoso nella propria mente e, concentrando tutte le proprie energie psichiche, vi si teletrasportava. Oppure nella maggior parte dei casi non era in grado di gestirla, finendo in mondi paralleli quando era preda di picchi emotivi molto elevati. Ma quella spiaggia non aveva nulla a che vedere con i mondi nei quali aveva viaggiato sino ad allora e la conferma più ragguardevole arrivò dalla possibilità di interagire con gli abitanti di quel mondo, cosa che quando sfruttava la propria particolarità gli era preclusa. Diveniva un osservatore silenzioso, una sorta di spettro che poteva unicamente scrutare lo scorrere di eventi che non lo vedevano incluso. Mentre il giovane che era accorso in suo aiuto lo aveva visto e comunicato con lui dando riprova di percepirlo come una persona in carne ed ossa e bisognosa di aiuto. Aveva impiegato non pochi minuti ad immagazzinare quelle informazioni e la calura di quel luogo unita alla spossatezza non facevano che minare la sua concentrazione. A fare da collante di quell'assurda situazione, il fatto che i suoi ricordi non riaffioravano; né quelli dell'immediato passato né tanto meno quelli più remoti. Una condizione che cominciava ad allarmarlo sebbene cercasse di non darlo a vedere; non tanto perché desiderasse nascondere le proprie insicurezze allo sconosciuto, quanto più per deformazione professionale. Spiaggia infuocata? Che razza di nome era? Pareva uno di quei nomi fittizi attribuiti alle ambientazioni dei videogiochi con i quali suo nipote spendeva ore delle sue giornate. Così annuì col capo senza aggiungere commenti a quell'informazione, giusto per dar modo al suo interlocutore di capire che aveva recepito l'informazione. Un'isola...ah. Credeva si trattasse di una vasta spiaggia di un dato continente, senza contare che il fatto che il giovane l'additasse senza un nome specifico che era una cosa oltremodo curiosa. D'altronde con ogni probabilità il suo interlocutore doveva aspettarsi che lui sapesse su quale isola si trovasse, giusto? E che fosse normale che si trovasse in quella condizione di affaticamento fisico. Ma non aveva senso...perché quel benvenuto? Piuttosto si sarebbe aspettato di venir interrogato sul motivo per cui si trovava tra le onde, invece sembrava aspettarsi anche quello. Ehm...grazie... biascicò infine, restando volutamente vago. Era intimamente allarmato, un benvenuto avrebbe presupposto che lui fosse felice di trovarsi lì mentre invece non capiva né come ci fosse arrivato, né per quale motivo.
    Strinse con la poca forza che gli restava la mano offertagli, cercando di inarcare il busto e di issarsi in piedi. La postura eretta lo portò ad avere un leggero giramento di testa al quale però non diede troppo peso, reputandolo congruo agli sforzi fisici che lo avevano debilitato, oltre a notare che il giovane uomo era alto quasi quanto lui. Una piccola considerazione normale che gli infuse un barlume di serenità. Picchiettò sui propri vestiti nel tentativo di far cadere qualche granello di sabbia sttaccatosi ai tessuti talmente roridi da esserglisi incollati alla pelle ghiacciata vanificando così il suo gesto. Se non altro il disco solare sopra le loro teste lo stava rapidamente riscaldando. A quel punto sopraggiunse una domanda che lo cose impreparato e, da buon osservatore, non mancò di notare la mimica facciale dell'altro ed il tentennamento della voce che l’accompagnò, quasi si aspettasse ciò che gli aveva domandato, come fosse qualcosa che aveva preventivato, non che aveva appurato vedendola con i suoi occhi pochi istanti prima. In un primo momento, Jude fu portato a pensare che quando ancora si trovava immerso nella vegetazione rigogliosa, egli avesse visto in lontananza le onde o udito il rumore che avevano generato. Ma quelle peculiarità, nel momento in cui gli fu posta la domanda, lo portarono a mettere in dubbio le sue supposizioni. Si. rispose quasi in automatico, rincuorandosi di udire la propria voce leggermente più sicura. È proprio ciò che mi è parso sia accaduto. confermò tornando con la mente a pochi istanti prima. La sensazione che aveva, a mente lucida, era che in qualche modo il suo tentativo di raggiungere la linea dell'orizzonte fosse stata effettivamente ostacolato dalle acque marine, ma sembrava una teoria troppo folle per poter essere contemplata. E mi pare che la cosa non ti stupisca più di tanto. commentò sostenendo lo sguardo dell’altro, cercando di sondarne i pensieri con quel gesto di fatto inutile per la sua causa. A livello prettamente fisico si stava riprendendo, ma emotivamente si sentiva ancora troppo scosso perché potesse anelare alla tranquillità. Così si trovò a fare una cosa che detestava venisse fatta a lui, ma che reputò in quella circostanza necessaria ed impellente: silurò il malcapitato di domande.
    Siamo su un’isola, ok, ma sita in quale parte del globo? Com’è possibile che non ricordo come ci sia arrivato, così come quasi qualsiasi altra cosa che riguardi me ed il mio passato? Perché non sei stupito nel sapere che delle dannate onde nate dal nulla mi hanno spinto verso riva appena ho cercato di nuotare al largo, come se fossero dotate di volontà propria?! Ogni domanda veniva nutrita di un tono di voce più accalorato sino a sfiorare picchi decisamente poco educati. D’altronde la rabbia che montava dentro Jude per l’impossibilità di comprendere quella situazione celava un’umana paura nei confronti dell’ignoto. Da buon capo della polizia era abituato ad avere tutto sotto controllo quindi quella situazione gli era totalmente nuova e lo agitava più di quanto i tratti per metà britannici per metà norvegesi lasciassero trapelare. Arrestò di punto in bianco quella cascata di domande, concedendosi un unico profondo respiro. Scusami. Quando riprese parola dopo alcuni secondi, sembrò essersi leggermente tranquillizzato. Aveva cercato di racimolare tutta la calma di cui ancora disponeva, come faceva quando si trovava di fronte a questioni particolarmente ostiche e, più spesso ancora, quando stava alla centrale di polizia. Sono Jude Mikkelsen. Sei di Londra, vero? Quell’accento è inconfondibile, almeno per chi come me ci è nato e cresciuto. Abbozzò un mezzo sorriso attuo a cercare di distendere una situazione pesante, infilando le mani nelle tasche dei jeans e trovandole ricolme di sabbia. Voleva arrivare a comprendere la situazione nella quale si trovava più in fretta possibile in modo da potersi attivare per tornare indietro. Nulla avrebbe potuto suggerirgli che la realtà dei fatti lo voleva impossibilitato ad abbandonare quel luogo.
     
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    Un'aura quasi palpabile di confusione circondava il nuovo arrivato, librandosi nell'atmosfera a partire dai suoi gesti, dalla voce modellata in poche parole striminzite. Ci pensava Ahmet a riempire il silenzio, nella sua mente, attribuendo all'uomo una serie di pensieri che rispecchiavano le sue prime riflessioni sull'isola. Il suo arrivo era ormai piuttosto lontano nel tempo, ma ancora così vivido nei ricordi da permettergli di ricostruirne le circostanze in qualsiasi momento. Esse erano state sensibilmente diverse – si era ritrovato nel fitto della foresta, e vagabondaggi percepiti come interminabili avevano preceduto il suo primo incontro con altri esseri umani -, ma credeva che i pensieri, le supposizioni e gli stati d'animo che si erano avvicendati dentro di lui fossero sostanzialmente simili a quelli dell'uomo che aveva di fronte in quell'istante. D'altronde, come si poteva reagire quando si veniva catapultati in un mondo sconosciuto, senza spiegazioni di sorta e privati della propria storia? Era un terribile attentato all'identità stessa, ai legamenti – più o meno fragili – che permettevano ad un individuo di raccapezzarsi in se stesso e nella realtà circostante.
    Una persona che si fosse ritrovata in quelle condizioni non era di facile gestione, e Ahmet studiava il nuovo isolano per capire come la sua personalità avrebbe influito su quella base condivisa. Le sue forze fisiche erano state evidentemente stremate dalle bracciate che lo avevano portato a riva: la presa sulla sua mano lo testimoniava. Temette che non potesse reggersi in piedi, ma in qualche modo trovò il proprio equilibrio. La sua ripresa, ad essere sinceri, procedette in fretta, sostenuta da una rabbia più che giustificata. Ahmet incassò i suoi interrogativi senza battere ciglio; non dette segno di voler arretrare di fronte a quel fiume in piena, né tentò di arrestarne il corso. Si limitò a rimanere in silenzio, le mani abbandonate lungo i fianchi, e a non abbassare lo sguardo dal volto dell'interlocutore per un singolo istante. Le sue domande erano più che legittime e, anzi, testimoniavano uno spirito di osservazione fuori dal comune, specialmente nella difficile situazione in cui si trovava. Pensò che quell'uomo dovesse avere dei nervi di acciaio, in circostanze più consone alle sue abitudini.
    Ricordava quanto lui, nei suoi panni, fosse stato prossimo ad una crisi di nervi: come avesse tracciato il proprio confuso percorso tra la vegetazione rigogliosa, incurante dei rami bassi che si protendevano a strappargli i vestiti e a tingere quelle lacerazioni del rosso di ferite superficiali. Una fretta impellente si era impossessata di lui, facendogli sentire il bisogno di muoversi sempre più velocemente, a dispetto del fatto che non avesse idea di dove si stesse dirigendo. Sapeva solo che doveva uscire dalla foresta, dalla sua atmosfera soffocante, tinta del verde delle foglie più alte che facevano da schermo ai raggi solari. Il ronzio degli insetti era diventato insopportabile, gli occasionali richiami di un qualche uccello invisibile un grido nemico. La mente razionale non aveva più trovato spazio nella confusione dei sensi e delle emozioni.
    Lo sfogo dello sconosciuto, in confronto, fu quanto mai controllato, e lasciò presto spazio ad una nuova, cortese calma. Il cambiamento repentino stupì Ahmet: dopo un attimo di incertezza, accolse con sollievo quella novità, che restituiva ad entrambi un discreto controllo sulla situazione. Ora che Jude gli aveva accordato dello spazio, sapeva di dover prendere le redini della conversazione, cercando di chiarirgli ogni dubbio.
    «Io sono Ahmet Rayne.» Si presentò, sollevando gli angoli delle labbra in un leggero sorriso di cortesia. «Sì, ho vissuto a Londra tutta la vita, o almeno così credo. Nemmeno i miei ricordi sono molto chiari. E' una delle tante particolarità dell'isola. Vedi...» Si interruppe, indeciso su come proseguire. Si passò una mano tra i capelli disordinati, un gesto distratto che si portava dietro dalla sua vecchia vita. «...sei approdato in un posto singolare. Non sappiamo dove ci troviamo esattamente, per rispondere alle tue domande. Ci sono molti altri abitanti, alcuni vivono qui da anni, ma nessuno è mai riuscito ad allontanarsi abbastanza dall'isola per poter trovare altre terre. A causa del mare, sai.» Con la mancina indicò la distesa d'acqua, la stessa che aveva appena respinto Jude. «Ogni volta che qualcuno va troppo al largo, le onde diventano altissime e gli impediscono di andare avanti. Come è successo a te.» Non aveva immaginato che sarebbe mai toccato a lui dare quelle spiegazioni: poteva elencare una lunghissima lista di persone che sarebbero state più adatte a quel compito, ma non aveva scelta. Erano gli unici esseri umani che si potessero scorgere in quella parte della spiaggia, e quelli non erano dettagli che avrebbero potuto aspettare.
    «Pare che l'unico modo per raggiungere questo posto sia comparirci senza nessuna apparente ragione, come ti è appena successo. E' stato così per tutti.» Evitò di menzionare le tribù indigene, preferendo concentrarsi sui dettagli più strani ed essenziali, senza aggiungere confusione non necessaria. «E' stato così anche per me.» Ripeté, nella speranza che il racconto della sua esperienza personale avrebbe reso le sue parole meno assurde. «Qualche mese fa mi sono ritrovato nella foresta, senza avere la minima idea di dove fossi, o che cosa stessi facendo prima. Sono rimasto da solo per molto tempo, abbastanza da sentirmi impazzire. Tutta questa situazione è assurda, e non avere nessuno che mi dicesse che era normale, che non stavo delirando...» Scosse la testa, lasciando quel pensiero a metà. Non era da lui aprirsi con chi non conosceva, e l'unico motivo per cui in quel momento lo stava facendo era che sentiva una grande affinità e solidarietà dei confronti di Jude. «Invece siamo in molti ad essere passati attraverso le stesse stranezze.» Tinse quell'ultima constatazione di un tono deciso, guardando Jude negli occhi, come se volesse dissipare in lui l'incertezza e la solitudine che avrebbero potuto farlo soffrire, e con cui lui era così familiare.
    Concluse così: c'era ancora moltissimo di non detto, questioni che non aveva affrontato in quel primo, maldestro tentativo di spiegazione. Preferì aspettare che Jude assimilasse al meglio quelle prime rivelazioni, e che gli facesse le domande del caso. Non credeva che avrebbe saputo rispondere a tutte, visto che lui per primo conservava non poche perplessità.
     
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    Jude era sempre stato un uomo connesso alle emozioni che le situazioni gli infondevano: prendeva le cose di pancia ed i suoi gesti e scelte venivano manovrati dai sentimenti, come un burattino le cui movenze venivano controllate da fili invisibili e solo grazie al suo impiego era riuscito, nel tempo, a smussare quel lato del suo carattere in virtù di un gelido raziocinio. In quel momento aveva cercato di ottenebrare ciò che l'istinto gli imponeva di fare, calmandosi e cercando di non lasciarsi prevaricare da emozioni poco positive. Purtroppo per lui, però, le informazioni richieste minarono i suoi tentativi più di quanto si sarebbe aspettato. Non esiste un modo giusto o errato di abbracciare le novità, siano esse positive o negative, ma di certo il norvegese in quel momento si sentiva dilaniato dal comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Aveva la mente sgombra di ricordi ed era una cosa che mai gli era capitata in tutta la vita; fortunatamente le parole di Ahmet lo rassicurarono sul fatto che qualcuno, presto o tardi, sarebbe riaffiorato nella sua mente. Ma non era granché, sembrava il contentino dato ad un alunno nel corso di una lezione, una flebile rassicurazione di cui, in tutta onestà, non riusciva a vedere grossi lati positivi. Trentatré anni vissuti al massimo delle sue possibilità, votandosi a situazioni estreme delle quali spesso si era pentito ma che tutto sommato lo avevano reso l'uomo che era quel giorno; pensare di non poterle più ricordare gli era intollerabile anche se poco poteva fare viste le circostanze. Percepiva le difficoltà del suo interlocutore nello spiegargli una situazione intricata e pesante, essendoci passato anche lui; era probabile che mentre parlava ripensava a quando tutto quello era capitato a lui e non aveva avuto la stessa fortuna di poter ricevere spiegazioni chiare ed esaustive da un suo simile. O di avere la compagnia di un altro essere umano, piuttosto che delle sue più pungenti paure. Ma tutto ciò non bastava a seppellire lo stato di disperazione e angoscia che si stava nutrendo della mente di Jude man mano che quelle parole scorrevano copiose come tanti aghi acuminati.
    Ciò che Ahmet gli stava rivelando appariva ancora più folle di quello che attorniava la cittadina dal quale proveniva. Se un tempo aveva considerato le particolarità pericolose, cominciava a temere che il suo destino, o la sfortuna, lo avessero portato a percorrere una strada ancora più deleteria. Il cranio gli pulsava terribilmente e il suo animo era in subbuglio più di quanto, da quel che poteva ricordare, avesse mai provato in tutta la sua vita. Ma di che vita stava parlando? Chi era stato realmente Jude Mikkelsen prima di spuntare come per magia in quel luogo apparentemente paradisiaco che celava, tuttavia, insidie di cui non poteva nemmeno sospettare l'esistenza? Era tentato di dire in tono sarcastico "Ehi, è uno scherzo vero?" ma intimamente sapeva che sarebbero solo state parole al vento. Sondare la mente umana era implicito nel suo mestiere, carpire quando l'altro mentiva una bazzecola e quel ragazzo non mentiva. Nulla dei suoi gesti e delle sue espressioni, tanto più il tono di voce, mimava una fandonia. Si trovò a scuotere il capo con veemenza, come se quel gesto potesse scacciare una verità pesante come un macigno su uno stomaco debilitato. Avrebbe impiegato molto tempo prima di accettare quella nuova condizione di vita impostagli, ma era inutile che si prodigasse in domande come "Ci sarà pure qualcosa che possiamo fare?!" o "E provare a fuggire per via aerea, se via mare è impossibile?". Numerose erano le domande sensate alle quali avrebbe potuto dar voce ma se, come aveva detto il ragazzo, da anni altre persone erano lì, era piuttosto probabile che avessero vagliato tutte le opzioni possibili per liberarsi da quella prigionia. Già, non riusciva a vedere in modo differente una condizione del genere. Si sentiva come rinchiuso in uno di quelle gabbie dove lui stesso aveva sbattuto molti suoi simili. Il suo carattere gli imponeva di cercare delle soluzioni ogni qualvolta si trovava a dover affrontare situazioni difficili ma in quel momento, forse complice la spossatezza ed i dolori lancinanti che accusava, si sentiva stranamente arrendevole. Forse era l'isola a infondergli quello stato d'animo, riuscendo addirittura a smussare un carattere già delineato dal tempo e da qualsiasi tipo di situazione. Come avrebbe scoperto i giorni a seguire, a mente lucida e riposata, il desiderio di fare qualcosa si sarebbe presto impadronito di lui, com'era implicito nella sua natura. Ma non quel giorno. E' tutto così irreale... ormai la sua voce aveva ritrovato una certa stabilità, contrariamente alla sua psiche e dal suo spirito afflitto.
    Serrò gli occhi, ritrovando nel buio ugualmente una luce rossastra data dall'impatto dei raggi solari sulle sue palpebre. Ho bisogno di riposare Ahmet. Sto cercando di assimilare quanto mi hai detto ma, come puoi intuire, non è affatto facile. Poterlo fare con la gola meno arsa ed il corpo meno debilitato sarebbe già un buon punto di partenza. Ahmet gli sembrava a primo acchito un ragazzo in gamba che avrebbe facilmente compreso la richiesta implicita nella sue parole. Voleva abbandonare quella spiaggia maledetta nella quale non vi era alcun tipo di schermo contro i raggi del sole. Inoltrarsi nella vegetazione avrebbe offerto loro un riparo e, sebbene non fosse sicuro di essere in grado di affrontare una camminata lunga e tortuosa, lo spirito di sopravvivenza si stava già facendo strada dentro di lui. Anelava di raggiungere un luogo, forse un accampamento o qualcosa di simile, dove queste fantomatiche persone di cui aveva accennato il giovane potessero garantirgli cibo e acqua. Senza un giusto riposo e un nutrimento di qualunque natura, dubitava sarebbe riuscito combinare qualcosa di utile, per sé stesso e per chi gli stava accanto. Io sono Jude, Jude Mikkelsen anche se dubito che qui il cognome abbia ancora un significato...comunque ero capo della polizia di una cittadina di ristrette dimensioni nel cuore della Norvegia. Ero separato dalla mia ex moglie, avevo degli amici, tanti casini e...beh, onestamente al momento non mi riesce di ricordare molto altro. ammise scuotendo il capo con aria rassegnata. Mentre studiava all'accademia di polizia gli erano state impartite lezioni di sopravvivenza, utili quando si seguivano piste che conducevano le forze preposte in luoghi ostili. Era abbastanza certo che gli sarebbero tornate sommariamente utili e che il resto sarebbe emerso dalla sua natura di essere umano. L'istinto di sopravvivenza, dopotutto, era implicito nel DNA di ciascun essere vivente.
    Ti chiedo di aiutarmi. Prometto che non sarò un peso, anzi, conto di poter essere d'aiuto una volta che mi sarò ripreso... dallo shock? Dalla spossatezza? Da quel senso di disperazione? Sarebbe poi risultato effettivamente d'aiuto in una comunità come quella? Ancora domande, troppe, molte delle quali probabilmente prive di risposta certa.
     
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    Mano a mano che spiegava ciò che conosceva della loro curiosa situazione, Ahmet non poteva fare a meno di tracciare, nella propria mente, un parallelismo con il momento in cui le medesime rivelazioni erano state offerte a lui. Si ritrovò così ad osservare quella scena da un punto di vista ibrido, che lo vedeva partecipe in entrambi i ruoli di novello ed anziano. Il risultato era una grande empatia nei confronti di Jude, mentre gli pareva di leggere sul suo volto ciò che i cacciatori avevano trovato nel suo, mesi e mesi addietro.
    Inizialmente li aveva scambiati per dei selvaggi: tutto, dal pellame in cui erano avvolti ai corpi dipinti nel tentativo di mimetizzarsi nella foresta, pareva suggerire che appartenessero ad una di quelle tribù di cui a volte aveva sentito parlare nel mondo “civilizzato”. Il gruppo – tre uomini e una donna, che sembrava guidare gli altri – lo aveva intercettato prima che lui potesse scorgerli o sentirli muoversi con i loro passi felpati. Nel momento in cui si erano palesati, impugnando ciascuno una lancia rudimentale, tutto ciò che rimaneva del suo autocontrollo si era spezzato, facendo di lui una creatura spaventata: una preda dagli occhi spalancati, le labbra che tremavano nel tentativo di dare voce ad un urlo spezzato. Aveva voluto scappare, ma la stanchezza e il panico avevano accentuato la goffaggine che lo caratterizzava nel fitto del bosco, e la sua fuga era terminata dopo pochi passi. Era rovinato a terra, dopo di che erano seguiti gli istanti più orribili di tutta l'esistenza di cui fosse cosciente. Aveva cessato di essere una persona, per trasformarsi in un turbine incontrollato di terrore e aggressività. Ci era voluto del tempo per calmarlo ma, infine, l'accorgersi di parlare un linguaggio comune, che non aveva mai creduto di conoscere, aveva giocato un ruolo fondamentale nel convincerlo che quello non era un autentico incubo.
    Per loro fortuna, Jude aveva un autocontrollo migliore del suo. Probabilmente le circostanze stesse avevano giocato a loro favore, lasciando all'uomo tutta la dignità che ad Ahmet era stata negata. Dopo l'iniziale scintilla di rabbia, gli occhi glaciali parevano carichi di stanchezza. Non era lunga la strada per raggiungere i Nidi Silenziosi, dove avrebbe trovato un rifugio e un giaciglio dove poter riposare. Il suo corpo avrebbe rigenerato le proprie forze, ma si trattava della difficoltà minore, che impallidiva di fronte a ciò che l'animo avrebbe dovuto affrontare.
    Ahmet era pronto a ritornare sui propri passi insieme al nuovo arrivato, ma una particolare osservazione dell'altro lo lasciò quanto mai interdetto. Si accigliò, pensieroso, prima di alzare lo sguardo in quello di Jude Mikkelsen. «Il tuo cognome ha un significato, Jude, così come tutto quello che ricordi o che ricorderai. Il fatto che l'esistenza che hai avuto fino ad ora si sia interrotta non vuol dire che tu, come persona, non abbia più un'identità. Solo, sono cambiate le circostanze in cui farla valere.»
    Ahmet credeva profondamente in ciò che aveva appena detto. Se fosse stato altrimenti, probabilmente sarebbe impazzito: gli rimanevano pochi ricordi, è vero, ma gli indizi per ricostruire colui che era stato gli si palesavano ogni giorno nel suo modo di comportarsi, di pensare, di sentire. Qualsiasi fossero state le circostanze che lo avevano plasmato, voleva credere che non fossero più importanti del risultato: Ahmet Rayne, colui che, così come la sostanza assume innumerevoli forme, si sarebbe modellato alla – e avrebbe modellato la – realtà in cui un destino capriccioso avrebbe deciso di scagliarlo. L'Isola metteva alla prova ogni aspetto della persona, dal mero contenitore al mistero più profondo dell'anima e, per quanto non avesse ancora capito come superare le difficoltà che vi si incontravano, credeva di poter costruire la propria strada a partire da quella minuscola certezza.
    «Vieni, di qui si arriva ai Nidi Silenziosi.» Mosse il primo passo, facendogli cenno di seguirlo. «E'… una sorta di villaggio, diciamo. Lì è raccolta la maggior parte delle abitazioni, gli altri saranno contenti di vedere che c'è un nuovo arrivato. Sono ospitali, vedrai. Potrai riposarti e riprenderti, poi avrai tutto il tempo di decidere cosa fare.» Iniziò ad allontanarsi dalla linea del mare, dirigendosi verso la vegetazione. Gli alberi avrebbero offerto loro riparo dal sole prepotente, e avrebbero trovato un ruscello che avrebbe dissetato Jude prima ancora di arrivare alle abitazioni. Per alcuni minuti rimase in silenzio, limitandosi a fare strada. Il volto serio non lasciava trapelare i suoi pensieri, mentre il corpo esprimeva solo sicurezza nel muoversi in un ambiente che aveva imparato a conoscere.
    Infine, spezzò il mutismo in cui si era rinchiuso. «Io ero un pittore.» Continuava a guardare dritto davanti a sé. «Cercavo di fare fortuna nell'ambiente artistico di Londra, ma non è che funzionasse granché. Gli altri pittori erano più interessati al mio viso che ai miei quadri, quindi a volte posavo come modello. Un modo come un altro di avvicinarmi al mondo dei miei sogni. In tutta onestà, era per lo più marcio, ma credevo di poter fare la differenza.» Lanciò un'occhiata al suo interlocutore, poi si strinse nelle spalle. Non lo sapremo mai, stava per dire, ma si morse la lingua all'ultimo istante: non era il caso di sottolineare quell'aspetto fatalista della faccenda, immaginava che Jude avesse già il suo bel daffare ad accettarla senza il suo contributo inopportuno. «Siamo quasi arrivati.»
     
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    Era la prima volta in tutta la sua vita che Jude aveva l'impressione che la propria esistenza fosse stata ribaltata come una palla di vetro da collezione e la neve che ricadeva copiosa, altro non era che una nuova versione di ciò che lo circondava. Al rovescio, le cose apparivano tremendamente diverse da come era abituato ad osservarle: una distesa di sabbia finissima pareva promettere sicure scottature, l'acqua cristallina una morte rapida di media sofferenza. Nulla di quell'ambiente dai connotati vagamente famigliari infondeva all'uomo una sensazione di calma e sicurezza e dubitava, in quel momento, che le cose sarebbero mai potute mutare. Di norma sentiva di essere una persona fiduciosa nelle proprie capacità ed ottimista verso il futuro, ma troppe cose avevano deturpato nel tempo tutto ciò che di positivo aveva faticosamente costruito ed il pensiero di un futuro relegato in un luogo che non aveva scelto, sfiorava una dolce follia verso la quale già una volta si era avvicinato. Avvertiva lo sguardo indagatore di Ahmet che nulla aveva di sgradevole o fastidioso, ma che suo malgrado faticava a contraccambiare. Non perchè non nutrisse un sincero interesse nei suoi confronti, un giovane uomo che prima di lui aveva dovuto affrontare quella situazione ed in modo assai più spiacevole di lui, ma che pareva aver trovato un'apparente serenità, o arrendevolezza, di fronte alla direzione presa dal suo destino. Ricambiare quello sguardo avrebbe equivalso ad accettare che realmente si trovava lì e che le sue parole erano pregne di verità; in cuor suo Jude non desiderava ammettere niente, nè accogliere per gli anni a venire una condizione non dettata dal proprio volere. Solo che non poteva fare altrimenti, come già gli era stato suggerito. Poi sopraggiunsero delle parole addolcite con una promessa della quale Jude gli fu grato. Non aveva mai amato il proprio cognome, perchè di fondo non amava chi glielo aveva imposto, mentre quella fu la prima volta che se ne sentì in qualche modo affezionato. Quando viveva a Londra da ragazzo aveva sempre cercato di nasconderlo poiché i londinesi d'hoc, fieri delle proprie radici, ponevano un sottile muro verso chi non aveva sangue puro inglese, seppur non vi fosse nessuna palese forma di razzismo in una delle città più cosmopolite d'Europa. Eppure le ragazze in pieno inverno uscivano la sera in infradito come ostentazione delle proprie radici, svestite per dimostrare quanto fossero temprate verso i climi rigidi, salvo poi spesso morire assiderate ubriache marce in attesa degli autobus notturni o che qualcuno offrisse loro da bere.* Vi era una sottile quanto marcata linea invisibile che separava chi era un purosangue inglese da chi non lo era e per evitare di essere estromesso dal gruppo, Jude aveva sempre cercato di nascondere, quando gli era possibile, la metà di sangue norvegese che gli scorreva nelle vene. Ma in quel frangente, ironicamente quello stesso cognome assumeva un'importanza ed un'attrattiva non di poco conto o forse era solo un mero tentativo di aggrapparsi a qualche certezza posseduta in merito a chi era stato fino a poche ore prima.
    Ahmet sosteneva che lui avesse ancora un'identità e forse aveva ragione, ma Jude in quel momento faticava a credere che una situazione come quella non avrebbe portato -se non l'aveva già fatto- influenze profonde e radicali sulla sua psiche, sul suo carattere, sul suo modo di approcciare le novità, positive o negative che fossero, sulla percezione che aveva di sé stesso in quanto individuo. Ma solo il tempo avrebbe potuto mostrare la veridicità di una teoria piuttosto che dell'altra. Nel dubbio che ancora aleggiava in lui, cercò tuttavia di lasciar trapelare dal suo volto un'espressione che valesse un: vedremo, può essere. Dar credito alla sua teoria così, a prescindere, gli era intollerabile in quel momento sebbene fosse certo delle buone intenzioni del suo interlocutore, il quale sembrava certo di ciò che gli stava dicendo. A quel punto fu ora di mettersi in cammino, ma Ahmet aveva compiuto pochi passi che riprese la parola. Jude lo imitò, constatando di riuscire a camminare su quel terreno scosceso senza avvertire sensi di nausea e vertigini che aveva preventivato dopo ciò che aveva passato. Gli altri. Di nuovo un riferimento ad altri esseri umani nella loro stessa condizione. Quale diavoleria poteva aver reso possibile tutto quello? Dalla cittadina dalla quale proveniva credeva di aver visto di tutto in termini di stranezze, ma quell'isola era la cosa più assurda con cui avesse mai avuto la sfortuna di scontrarsi. E senza apparentemente possibilità di sottrarvici. Perchè si, intimamente, era naturale che i primi tempi Jude avrebbe avvalorato qualsiasi ipotesi, anche la più allucinante, che gli avrebbe permesso di sperare di abbandonare quel luogo. Non so bene cosa potrei fare. ammise con un'alzata di spalle, tendendo il collo per individuare un punto davanti a sé. Avevo pensato che, se via mare è impossibile scappare, forse via aerea si poteva avere qualche possibilità. Ma certo, improvvisiamoci Leonardo da Vinci e mettiamo a punto un ornitottero! Quella sorta di magia che li aveva condotti lì, forse in qualche modo che ancora non riusciva a discernere, avrebbe potuto riportarli....dove? Ahmet aveva detto che come in un film post apocalittico non si era più nemmeno certi che vi fosse ancora qualcosa oltre quella distesa azzurrina. Il giovane si era raccolto in un nuovo mutismo, spezzato di punto in bianco da una frase che pareva condita di malinconia, una frase personale e intima. Effettivamente hai dei lineamenti fini. asserì l'uomo sfiorando in senso lato il motivo per cui, forse, Ahmet aveva detto che quell'ambiente fosse marcio. Se si stesse riferendo alle finanze di partenza non ne era certo, era più portato a pensare che, come spesso accadeva in molti ambienti artistici, le tendenze sessuali di alcuni pittori fossero stuzzicate dal volto femmineo del giovane. Se poi lui vi fosse affine o meno era una questione che non lo riguardava. Cercò piuttosto di mostrare per la prima volta un vago senso di ottimismo che però di modellava sull'ipotesi di dover realmente restare lì molto, troppo a lungo. Potresti non dover abbandonare del tutto i tuoi sogni artistici. Con il carbone generato da un falò morente potresti ricreare un carboncino col quale dipingere su massi o costruendo fogli con la corteccia dell'albero del gelso da carta o con dei papiri. molto vaghe erano le sue rimembranze legati agli studi in età meno matura, ma qualcosa ancora lo ricordava. Auspicava per Ahmet che tra gli altri vi fosse qualcuno con nozioni in materia migliori delle sue che potesse aiutarlo nella fabbricazione di una superficie, anche del pellame, volendo sulla quale poter far riemergere la sua vena artistica. Ovviamente non saresti confinato al bianco e nero...alcune tribù africane decorano il proprio corpo estraendo pigmenti da frutta e verdura oppure mediante resine bruciate, polvere di malachite, una pietra dal colore verde/turchese, fuliggine, cere...vedrai che un modo lo troveremo. abbozzò un sorriso, il primo da quando si era risvegliato rendendo implicito nelle sue parole il suo desiderio di stare al suo fianco, sgombrando il più possibile la mente dai pensieri negativi in favore di qualcosa di positivo per il suo soccorritore. I discorsi fluivano senza particolari ostacoli, aiutando Jude a sentirsi meglio sul piano spirituale, e li accompagnavano mentre si addentravano nella fitta vegetazione.

    Continua qui
     
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